Gli smart contract sono stati oggetto di sperimentazione negli anni ’90, ma l’idea di “contratto intelligente” si può far risalire già agli anni ’70 in relazione alla necessità di gestire l’attivazione o disattivazione di una licenza software in funzione di determinati requisiti.
Elemento di primaria importanza per il loro inquadramento giuridico è che sono stati pensati in un ambiente giuridico di Common Law per cui i giuristi di Civil Law dovranno sapere adattare questa “filosofia contrattuale” anche ai canoni del Diritto Continentale.
Uno dei primi a effettuare tali sperimentazioni e a coniare il nome stesso fu Nick Szabo[1], un esperto di crittografia statunitense di origini ungheresi che grazie alla passione per la Data Science iniziò a ipotizzare già nel 1993, quando ancora non si parlava di Internet of Things e di Big Data, che determinati oggetti potevano essere gestiti in modo digitale in virtù di specificate condizioni.
Recentemente gli smart contract sono stati oggetto di numerosi dibattiti in materia di trasformazione digitale per gli svariati contesti in cui possono trovare applicazione ed anche perché rappresentano una delle molteplici dimensioni del crescente fenomeno della blockchain.
Vengono definiti dal regolamento (D.L. 14 dicembre 2018, n. 135[2], convertito in legge con L. 11 febbraio 2019, n. 12, all’art. 8-ter) come “un programma per elaboratore che opera su tecnologie blockchain e la cui esecuzione vincola giuridicamente ed automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse”.
È necessario inoltre che “soddisfino il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate”.
Con smart contract si intende la redazione di un contratto contenente delle condizioni/clausole che devono essere rispettate per fare sì che le definizioni operative possano essere compiute.
La logica che viene rispettata è quella del “if-this-then-that”[3], ovvero “se questo accade allora succede”.
Ne consegue che il supporto legale è, quindi, di utilità nella stesura dello smart contract, ma non nella fase di verifica e attivazione, che avviene in maniera automatica bensì nella predisposizione e redazione vista la “stringatezza/smart” del suo contenuto.
Lo smart contract deve essere un “distillato” di concetti giuridici senza perdere di vista la chiarezza ed il lato tecnico/legale del documento.
Le maggiori differenze tra gli smart contract che, ripeto, hanno un DNA di Common Law ed i contratti disciplinati dal codice civile sono:
- nei contratti “tradizionali” la fiducia viene garantita, purtroppo non sempre, soprattutto tra le PMI italiane, da una figura terza che di norma dovrebbe seguire la redazione del contratto e la sua negoziazione, che può essere quella di un notaio (nei casi in cui questa figura sia obbligatoriamente prevista dalla legge come per esempio per la vendita di un bene immobile e la sua successiva trascrizione – la nota di trascrizione, in Italia, implica necessariamente la figura di un pubblico ufficiale) o di un avvocato.
Invece nello smart contract, il ricorso ad una figura terza viene meno in quanto sono contratti per così dire “automatici”.
Risulta tuttavia chiaro che alcune garanzie debbano essere comunque sempre rispettate: “il codice informatico” non deve essere modificabile, le basi e le fonti dei dati devono essere provate ed affidabili, e le modalità di lettura e controllo delle fonti dati devono essere certificate;
- negli smart contract non c’è spazio alla violazione delle condizioni sottoscritte, dal momento che tra le loro caratteristiche intrinseche c’è proprio sia l’esecuzione automatica che l’inalterabilità.
L’accordo negoziale, che rappresenta uno dei requisiti essenziali del contratto stesso (1325 c.c. – 1321 c.c.), rimane in capo alle rispettive parti.
Dovrà esserci, come nei normali contratti, una perfetta coincidenza tra la volontà delle parti, che dovrà essere tradotta in un “codice informatico”.
Diversi possono essere i vantaggi derivanti dall’uso degli smart contract:
- indipendenza da intermediari, quali notai e avvocati, nella fase di verifica ed approvazione del contratto anche se, in pratica, una prima lettura ed impostazione dello smart contract visto il tecnicismo del linguaggio e del ragionamento giuridico necessiterà comunque che un giurista rediga il documento di base.
- immodificabilità del “codice informatico”, che esclude l’esigenza di figure terze che esaminino la liceità e validità di un accordo in quanto una volta inserirti i parametri giuridici il documento vivrà di automatismi;
- risparmio economico, dovuto in gran parte all’esclusione di intermediari nelle fasi di verifica e approvazione, ma non in quella di creazione;
- maggiore precisione e riduzione degli errori, poiché lo smart contract, in modo automatico, al verificarsi delle condizioni stabilite, fa sì che si verifichino determinate azioni;
- genericamente: semplificazione delle operazioni di contrattazione.
Tuttavia, oltre a diversi vantaggi emergono anche alcuni elementi critici da monitorare con attenzione:
- linguaggio in codice: è necessario che le parti si affidino da un lato ad un esperto informatico in grado di tradurre in “codice informatico” il testo dell’accordo, dall’altro a professionisti legali (avvocati e notai) per far sì che avvenga una corretta trasmissione della volontà delle parti alla “figura informatica” al fine di evitare equivoci o incomprensioni che comprometterebbero la reale volontà delle parti;
- interpretazione del contratto (relativa a intenzione dei contraenti, interpretazione complessiva delle clausole, interpretazione di buona fede, ecc.).
- esecuzione automatica della prestazione: non lascia la possibilità per i contraenti di compiere azioni contrarie o diverse da quelle previste nelle clausole contrattuali quindi limitando il potere discrezionale delle parti.
Lo smart contract può quindi creare delle difficoltà per quanto riguarda l’irrevocabilità dell’accordo e quindi la gestione degli istituti quali: il recesso, la risoluzione, l’annullabilità e la nullità questi ultimi due non sono istituti giuridici che si possano gestire tra le parti costituendo i casi di nullità e di annullabilità norme imperative.
Per quanto riguarda il diritto italiano sarà da affrontare la problematica delle “clausole vessatorie” – la così detta “doppia firma” – sia nei rapporto b2b che nei rapporti b2c – (codice del consumo).
L’art. 1321[4] c.c. definisce il contratto come “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare, o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Oltre all’aspetto patrimoniale, legato quindi alla valutazione/natura economica, gli smart contract, per il diritto italiano, devono rispettare altri requisiti prescritti dall’art. 1325 c.c.: l’accordo, le parti, la causa, l’oggetto e la forma. Tra questi requisiti, la forma scritta è quello che suscita maggiori perplessità. La forma scritta trova la sua ragione di essere per due principali motivi:
- Ad substantiam: la forma è richiesta per la validità stessa dell’atto.
- Ad probationem: la forma costituisce l’unico mezzo per provare l’esistenza di quel negozio.
La questione della forma scritta nei documenti informatici è stata affrontata dal Decreto Legislativo 13 dicembre 2017 n. 217, recante le modifiche e le integrazioni al “Codice dell’Amministrazione Digitale.”
L’art. 20 del suddetto Decreto sancisce che il documento informatico soddisfi il requisito della forma scritta e abbia l’efficacia di cui all’art 2720 c.c. (“piena prova” della provenienza delle dichiarazioni da chi ha sottoscritto il documento salvo un disconoscimento da quest’ultimo) qualora sia sottoscritto con una firma digitale, qualificata o avanzata, o, nel caso di documenti sottoscritti con firme elettroniche differenti, qualora rispetti gli standard tecnici individuati dall’Agid (con modalità volte a garantire sicurezza, integrità, immodificabilità del documento e riconducibilità dell’autore).
Nei restanti casi il valore probatorio del documento informatico è rimesso al libero giudizio degli organi giudicanti.
Altri elementi di interesse sono il tema dell’identificazione del firmatario (e le relative modalità in cui questo può avvenire, come per esempio, con la firma elettronica, o con l’uso di SPID) per cui l’Agid sta definendo dei requisiti idonei a far sì che un processo di identificazione informatica possa dar luogo alla creazione di firme elettroniche.
Un altro tema da gestire e regolamentare è quello della responsabilità civile poiché essendo l’intervento umano limitato la scrittura del “codice informatico” deve essere in grado di fare scaturire automaticamente delle conseguenze giuridiche in seguito al verificarsi di determinate condizioni.
L’impiego degli smart contract è oggi ancora limitato ma la loro diffusione in contesti dominati dalle nuove tecnologie, dove automazione e velocità di esecuzione sono un vero fattore differenziale e di cui i network blockchain sono un chiaro esempio, li pone al centro dell’attenzione della normativa nazionale ed internazionale.
[1] Il termine “smart contract” è stato coniato negli anni ’90 da Nick Szabo, un informatico statunitense, con studi legali e di crittografia, laureatosi presso l’Università di Washington nel 1989 in informatica.
Scrive infatti Nick Szabo: “L’idea di base dello smart contract è che molti tipi di clausole contrattuali (come la garanzia, l’assunzione dell’obbligazione, la delimitazione di un diritto di proprietà, ecc.) possono essere incorporati nell’hardware e nel software che trattiamo, in modo da rendere la violazione del contratto costosa (se desiderato, addirittura proibitiva) per il soggetto inadempiente”.
Egli, partendo dall’esempio base del distributore automatico di bevande, offre ulteriori esempi applicativi, tra cui uno, ben più “smart”, relativo alla possibile gestione automatizzata dei rapporti nascenti dall’acquisto di un autoveicolo mediante pagamento a rate. Grazie, infatti, ad una combinazione di hardware e software installati nel veicolo stesso, Nick Szabo giunge ad immaginare che lo smart contract entri in azione per disabilitare la messa in moto dell’auto in caso di mancato pagamento di un certo numero di rate.
[2] Il D.L. 14 dicembre 2018, n. 135 (in GU n. 290 del 14 dicembre 2018) convertito con modificazioni dalla L. 11 febbraio 2019, n. 12 (in G.U. 12 febbraio 2019, n. 36) ed entrato in vigore dal 15 dicembre 2018, introduce nel nostro ordinamento giuridico le nozioni di tecnologie basate su registri distribuiti e smart contract.
Dispone infatti l’art. 8-ter del decreto:
“1. Si definiscono “tecnologie basate su registri distribuiti” le tecnologie e i protocolli informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l’aggiornamento e l’archiviazione di dati sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili.
- Si definisce “smart contract” un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) con linee guida da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
- La memorizzazione di un documento informatico attraverso l’uso di tecnologie basate su registri distribuiti produce gli effetti giuridici della validazione temporale elettronica di cui all’articolo 41 del regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014. 4. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’Agenzia per l’Italia digitale individua gli standard tecnici che le tecnologie basate su registri distribuiti debbono possedere ai fini della produzione degli effetti di cui al comma 3”.
Detto articolo definisce quindi le nozioni di “tecnologie basate su registri distribuiti” al primo comma e di “smart contract” al secondo, prevedendo al terzo comma gli effetti giuridici della memorizzazione di un documento informatico attraverso l’uso di tali tecnologie basate su registri distribuiti.
[3] Il linguaggio di cui si compongono i codici dei software è di estrema semplicità e viene generalmente espresso secondo lo schema di carattere binario IFTTT ovvero “if this than that” (letteralmente: “se questo allora quello”). Secondo tale schema, al verificarsi di un determinato evento il software riconnette l’esecuzione di un’azione specifica. E’ proprio l’estrema semplicità della struttura del codice, che oltretutto sembrerebbe idonea a conferire maggiore certezza in fase di esecuzione del rapporto, a rendere lo smart contract particolarmente appetibile per le parti.
[4] Il contratto è definito dall’art. 1321 c.c. come “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Elementi essenziali del contratto, a norma del successivo 1325 c.c., sono: l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto e la forma (quest’ultima quando prevista dalla legge a pena di nullità).
Ripercorrendo, brevemente, tali elementi:
* le parti (o centri di interessi): sono i soggetti rispetto ai quali, o nel cui interesse, il contratto esplica le conseguenze giuridiche pattuite;
* l’accordo: è l’incontro della volontà delle parti ed è quel “quid” essenziale che dà vita al contratto;
* la causa (la cui definizione non sempre è univoca): può essere genericamente indicata come l’elemento giustificativo che rende giuridicamente apprezzabile lo scopo a cui tende in concreto l’attività delle parti;
* l’oggetto (concetto anch’esso non univoco): rappresenta l’insieme delle prestazioni e, quindi, qualunque cosa le parti siano tenute a fare, a non fare, a dare o a non dare.
Ultimo, ma non per importanza, è il requisito della forma.