I principi base della finanza islamica e gli investimenti diretti nei Paesi del Golfo
di Alessandro Russo

La finanza islamica è un tema attuale e negli ultimi mesi spesso si legge di possibili aperture anche dei paesi di cultura occidentale alle tecniche ed ai principi di finanza islamica. Il presente articolo si propone come il primo di una serie di prossima pubblicazione dove verranno in seguito approfonditi sia i principi che regolano le istituzioni finanziarie ispirate alla finanza islamica sia i diversi prodotti disponibili alle imprese. Anche in Europa si avverte tale tendenza e Londra si è dimostrata ancora una volta essere la piazza finanziaria che per prima sta tentando l’apertura delle tecniche in oggetto verso il mondo occidentale. Tralasciando per il momento le origini e rimandando alle successive pubblicazioni l’approfondimento dei singoli “prodotti”,  si vuole in questa sede dapprima esporre alcuni dei principi alla base della finanza islamica e successivamente focalizzare l’attenzione del lettore sull’impatto che la stessa può avere sui processi di internazionalizzazione delle imprese italiane in determinate aree del mondo, tra le quali ovviamente il Nord Africa ed i Paesi del Golfo anche se, come vedremo, la stessa logica vale per tutti gli investimenti diretti effettuati nei paesi di cultura islamica tra i quali ad esempio il Pakistan ed in parte il Sud Est Asiatico. La finanza islamica moderna, che dopo alcuni timidi tentativi risalenti agli anni ’60 ha iniziato a svilupparsi dalla metà degli anni ‘70 con la creazione della Islamic Development Bank ad opera dei ministri delle finanze di alcuni Paesi arabi riuniti presso l’Organization of the Islamic Conference (OIC), ha subito un notevole sviluppo nel momento in cui, negli ultimi anni, anche nei paesi di cultura islamica si è assistiti ad una graduale apertura agli investimenti esteri e, contemporaneamente, ad una progressiva (seppur non completa) liberalizzazione dei sistemi bancari.

Il diritto islamico non è un diritto “statico” basato soltanto sui precetti religiosi del Corano inteso quale fonte primaria; a quest’ultimo si affiancano altre fonti del diritto quali gli atti e i detti del Profeta (Sunna) ed altre fonti gerarchicamente subordinate come il consenso dei Dotti (Ijimā) e l’analogia giuridica (Qiyās). I principi dell’economia sono strettamente connessi ai precetti religiosi, si parla di finanza “etica” svincolata dalla logica del profitto anche se a volte si abusa di tale terminologia cercando di dare una veste diversa a quella che è la naturale e storica vocazione  dell’attività bancaria e di intermediazione creditizia. I principi economici religiosi sui quali si basa la finanza islamica sono i seguenti:

  • Riba (divieto del tasso d’interesse)
  • Gharar (divieto dell’incertezza)
  • Maysir (divieto della speculazione)
  • Haram (vietato) vs Halal (consentito)
  • Zakāt (la tassa islamica)

Uno dei principi cardine attorno al quale ruota il sistema della finanza islamica è il divieto di  riscuotere o pagare interessi in quanto ritenuti assimilabili all’usura (Riba). Sia dal Corano che dalla tradizione relativa agli atti ed alle parole del Profeta risulta chiaramente che il praticare interessi equivale ad usura e l’interpretazione data dai giuristi musulmani è unanime nel sostenere che, in virtù di tale precetto, un bene debba essere restituito nella stessa sostanza ed in egual misura: “simile per simile, datteri per datteri, grano per grano, da una mano all’altra”.  Ciò non significa tuttavia che il prestito sia vietato e che il capitale non abbia un costo: ai fini dell’attività creditizia (sia essa svolta da una banca o da altro intermediario finanziario) quello che risulta vietato è l’applicazione di un tasso fisso di remunerazione del capitale stesso. Altro principio è dato dall’obbligo dell’elemosina,  detta “Zakat”.  In base a tale principio ogni anno tutti i musulmani adulti devono fare l’elemosina attraverso donazioni che vengono effettuate dai fedeli solitamente durante il periodo del Ramadan. Tale obolo di fatto costituisce una tassazione sulla ricchezza detenuta (in denaro o altri beni) e la percentuale ritenuta congrua si aggira attorno al 2,5%.

Per un’impresa che intende investire nei Paesi Arabi attraverso la creazione di una società mista (e spesso questa è l’unica opzione) con partner locale  non è secondaria l’analisi degli aspetti di cui si sta in questa sede discutendo. Si pensi ad esempio ai riflessi della Zakat sulla tassazione degli utili distribuiti che saranno tassati in maniera differente a seconda della nazionalità (o meglio della religione) dei singoli soci:  il partner locale sarà tenuto al versamento di un’imposta a titolo di Zakat, mentre l’investitore straniero subirà un prelievo più oneroso come previsto da normative ad hoc predisposte nei singoli paesi sugli investimenti stranieri.

Per quanto riguarda invece l’esercizio dell’attività bancaria tipica (tra i quali l’erogazione del credito alle imprese) è da tener presente  che, dato il divieto di praticare un tasso di interesse fisso, il sistema islamico prevede alcuni prodotti che seguono la logica del “Profit Loss Sharing”.  A differenza di una banca convenzionale la banca islamica non concede prestiti ma investe in operazioni che hanno come attività sottostante  un bene reale (ed in tal caso l’operazione è assimilabile ai nostri contratti di scambio) oppure attraverso l’acquisizione, in misura più o meno rilevante, di quote di partecipazione (assimilabili agli istituti occidentali del Project Financing o del Venture Capital): la banca sostiene l’investimento condividendo il rischio e di conseguenza acquisisce un diritto alla partecipazione ai profitti realizzati dall’impresa.

In conclusione, rimandando ai prossimi articoli l’esposizione più analitica dei diversi “prodotti” della finanza islamica, si richiama l’attenzione degli operatori di impresa verso l’approfondimento di tali aspetti prima di stipulare accordi di Joint Ventures societaria in tali paesi, al fine di potersi eventualmente cautelare nel momento della creazione della società.  Questo è possibile agendo sulle regole di funzionamento della società come ad esempio i quorum deliberativi, i criteri di distribuzione degli utili ed altri aspetti che, nella logica commerciale pura, spesso sfuggono emergendo poi in una fase successiva e creando i presupposti per la deriva patologica dell’investimento, sacrificando inutilmente  le risorse disponibili.