Non passa giorno che non si parli di internazionalizzazione, di mercati globalizzati, di export. Sono termini diventati un’opportunità per alcuni (pochi), un incubo per altri, una moda per tanti. Termini di cui si parla tanto, ma di concreto si fa molto poco (e spesso male).
Di fronte a questa situazione ci sono tutta una serie di luoghi comuni (ovviamente falsi) e di ricette forse interessanti dal punto di vista teorico, ma spesso fuori luogo dal punto di vista pratico. Vediamo in dettaglio:
- Italia paese di esportatori: Lo sapete che in Italia le aziende che esportano sono circa 200.000, cioè il 4,5% del totale delle imprese italiane? Lo sapete che di queste 210.000 ben 134.000 (due terzi) esporta mediamente ogni anno una cifra che non supera i 75.000 euro a testa e che complessivamente rappresentano lo 0,6% del totale dell’export italiano? Lo sapete che la metà di tutto l’export italiano lo fanno 1.000 (mille) imprese? Lo sapete che delle prime 100 aziende mondiali del settore lusso ben 29 sono italiane ma di queste la metà del fatturato viene realizzato solo da 3 (tre) aziende (Luxottica, Prada e Armani)? Lo sapete che l’export italiano nel settore agroalimentare rappresenta solo il 5% del totale dell’export italiano? Lo sapete che 2/3 dell’export italiano di vini negli USA lo fanno sei cantine? Usando un termine molto in voga nei social “#sapevatelo!”.
- Qualità delle nostre aziende: l’internazionalizzazione viene spesso vista come l’ultima spiaggia alla quale ricorrono le aziende in crisi, quando il mercato locale o nazionale non tira più ed allora si va all’estero per cercare di vendere i propri prodotti, dando spesso il colpo di grazia ad una situazione già critica. Per avventurarsi nei mercati internazionali bisogna godere di “ottima salute”. Internazionalizzarsi è come partecipare ad una Olimpiade, ed il buon senso impone di analizzare per primo la cosa più importante, che è lo stato di salute degli atleti. Invece spesso si cerca di portare all’estero aziende che non sono in grado neppure di camminare con le proprie gambe, perché hanno sempre ritenuto che argomenti come la certificazione di qualità (quella seria, non quella ottenuta solo per avere il bollino e basta), il controllo di gestione, lo studio e l’analisi del mercato, il check-up aziendale, etc., erano solo dei costi che non valeva la pena affrontare. Un po’ come quelle persone che fanno attività fisica per stare meglio e invece si prendono un infarto perché non avevano fatto un check-up preventivo del proprio corpo. A questo si aggiungono le ridotte dimensioni delle nostre imprese: infatti, seppur prevale lo slogan “piccolo è bello”, spesso tali piccole imprese, quando anche trovano all’estero l’acquirente per i loro prodotti, rischiano di far saltare la fornitura perché non sono in grado di soddisfare i requisiti minimi di fornitura (in particolare quantità e tempi di consegna). Basti pensare che il 90% dei produttori italiani di vino ha una produzione media annua di 10.000 bottiglie (in un container ci vanno 20.000). Perché vuoi vendere i tuoi prodotti in giro per il mondo se non sei in grado di sostenere neppure produzioni ridotte?
- Qualità dei nostri prodotti: sembra la parola magica per risolvere i problemi che abbiamo con la globalizzazione. Si dice: “Se miglioriamo la qualità dei nostri prodotti questi si venderanno di più”. Falso! La vendita di un prodotto dipende sia dal piano di promozione che da quello di commercializzazione (individuazione dei canali giusti per la vendita). Infatti investiamo ingenti somme di denaro in certificazioni di prodotto che sono, tranne qualche raro caso come i “Bio”, praticamente sconosciute all’estero, pensando che siano sufficienti per poterli vendere. Per non parlare poi del discorso che tutti dicono di fare qualità, ma poi soffrono la concorrenza dei Paesi a basso costo. Mai una volta che abbia sentito un’azienda dire che è in crisi per colpa dei Paesi che fanno qualità (Germania, Giappone, Israele, etc.). Se soffri i cinesi forse vuol dire che fai cineserie! Inoltre siamo così sicuri della qualità dei nostri prodotti che il termine “concorrenza” è praticamente sconosciuto, dal momento che i prodotti che fa la nostra azienda sono unici; ma poi siamo sicuri che esportiamo qualità? Nel settore del vino (prima voce dell’export agroalimentare italiano), la classifica dei prezzi medi internazionali è capeggiata dai francesi con 5,83 euro/litro, seguita da Nuova Zelanda con 4,5 euro/litro, Usa con 3,30 euro/litro, Argentina con 2,73 euro/litro e Italia con 2,67 euro/litro. E meno male che il nostro vino è “Made in Italy”…
- Promozione: negli ultimi tempi si è iniziato a capire l’importanza di far conoscere i prodotti nei mercati internazionali. Ma, anziché realizzare azioni strutturate di medio-lungo periodo, si creano tante attività “mordi e fuggi” con risultati molto scarsi. Non si può fare il pellegrinaggio di tutte le fiere senza mai tornarci oppure fare mostre e workshop in posti rinomati dove poi non si torna più: sono solo dispendio di denaro. I mercati vanno studiati, selezionali e presidiati (cioè rimanere). Se facciamo conoscere i nostri prodotti e poi scappiamo perché crediamo che i compratori si siano innamorati di ciò che produciamo, non faremo altro che replicare la situazione attuale: gli ordinativi non arriveranno, oppure si esauriranno in breve tempo a favore dei nostri concorrenti che invece presidiano quel mercato. In pratica le nostre aziende quando vanno all’estero usano la tecnica di “San Paolo sulla via di Damasco”, cioè arrivano sul posto, presentano i propri prodotti, e gli operatori esteri cadranno a terra, abbagliati dalla qualità e dal “Made in Italy”, e si convertiranno a loro, acquistando da quel momento e per sempre i loro prodotti. Per cui le aziende tornano in sede e aspettano l’arrivo di grandi ordini che dureranno in eterno.
- Commercializzazione: non basta solo far conoscere il prodotto, ma bisogna individuarne il canale di commercializzazione più idoneo. Ogni prodotto (dal migliore al peggiore) ha il suo canale di distribuzione che va seguito e monitorato. Invece l’unica figura commerciale estera conosciuta dalle nostre imprese è il mitico “importatore”, colui che risolverà i nostri problemi: acquisterà i nostri prodotti pagandoli molto bene, si occuperà del ritiro e pagherà sempre in anticipo. Ciò conferma un punto importante dell’approccio commerciale export italiano: noi non vendiamo, sono gli acquirenti esteri che ci devono comprare i nostri prodotti. Proattività e aggressività commerciale ridotti ai minimi termini. Certo non aiuta il fatto che mentre i cugini francesi hanno le loro GDO in giro per il modo a fare da portaerei per i loro prodotti, l’Italia non ha nessuna catena distributiva, se si eccettua “Eataly” che però è troppo piccola. Ciò è servito per diffondere nel mondo non il “Made in Italy” ma l’“Italian sounding”, cioè prodotti con nomi italianeggianti ma che non hanno nulla a che fare con le nostre produzioni.
- Registrazione marchio: questa è la voce più sconosciuta alle nostre PMI. Se i cinesi ci copiano è anche perché siamo noi a permetterglielo. Se non registriamo i nostri marchi e brevetti, chiunque può copiare ciò che vuole. In Spagna (Paese molto simile al nostro per cultura) il volume di cause discusse nei tribunali riguardanti la problematica dei marchi e brevetti è al secondo posto, dietro gli incidenti stradali. In Italia la percentuale è quasi irrilevante.
- Internet, sito web, Webmarketing: anche qui ci troviamo davanti a una serie di dati scoraggianti. Oltre il 25% delle imprese italiane non ha un sito web. Almeno un altro 25% ha un sito web ma sarebbe forse meglio oscurarlo. La percentuale di export italiano fatto tramite il web non supera il 5% del totale. Le nostre imprese sono quasi assenti dai grandi portali B2B mondiali come “Alibaba” dove oggi si fanno molti contatti commerciali. Molto spesso le imprese credono che fare export sia fare un bombardamento di email a tutti gli indirizzi che si trovano in rete proponendo i prodotti. Certamente il Webmarketing è una delle voci più importanti in una strategia di internazionalizzazione ma, appunto, è una delle voci che va integrata con le altre del piano export, non l’unica.
- Pagamenti e logistica: E perché mai mi dovrei occupare di queste rogne? Infatti le nostre aziende spesso non vendono, ma i loro prodotti vengono comprati dagli operatori esteri. Del resto le condizioni di fornitura sono quasi sempre “ExWorks e pagamento anticipato”. In pratica è il cliente che deve ringraziare per aver trovato la nostra azienda che ha i migliori prodotti del mondo dunque se la sbrighi lui con le problematiche dei trasporti e paghi in anticipo, anche perché lui si deve fidare di noi (come se gli italiani avessero una ottima reputazione all’estero). Poi magari si passa all’eccesso opposto, ci fidiamo del primo che troviamo e mandiamo la merce aspettando che ci paghi. Discorsi tipo lettere di credito, assicurazioni, gestione spedizionieri, etc., non servono per noi, non capendo che oggi molto spesso si vende non per il prodotto che abbiamo ma per i servizi offerti.
Non basta l’etichetta “Made in Italy” per invogliare gli stranieri all’acquisto. Molte delle nostre imprese ritengono che, grazie a questa etichetta, i nostri prodotti si venderanno da soli, che saranno inondati da richieste dall’estero appena scenderanno dall’aereo, ma purtroppo accade spesso il contrario (a meno che non ti chiami Armani, Prada, Ferrari). Solo la metà dei consumatori statunitensi pensa che il “Made in Italy” sia importante nella scelta di un prodotto e molti comprano surrogati di prodotti italiani come il Parmesan argentino o le piastrelle turche perché costano meno o perché sono più noti in quel mercato.
Nulla si vende da solo, bisogna fare ciò che finora si è fatto solo in minima parte: promozione, ricerca, formazione (ovvero investimenti). Invece le poche volte in cui è stato fatto, si è cercato solo di risparmiare; questo è il caso di tante missioni commerciali che si trasformano in gite turistiche o poco più, perché una missione commerciale ben fatta ha costi sensibilmente più elevati.